≪Credevano, gli uomini, che la cosa più sacra e più importante non fosse quella mattinata di primavera, non fosse quella bellezza del mondo, concessa per il bene di tutte le creature, giacché era una bellezza che disponeva alla pace, all’accordo, all’amore: ma fosse, la cosa più sacra e più importante, ciò che essi stessi avevano escogitato per poter dominare gli uni sugli altri.≫(Leone Tolstoj)
Quando un fiore
muore
le parole si disperdono
tremanti
in sommessi balbettii
Tracciano segni
esangui
barcollano
non trovano appigli
e cadono
disciogliendosi
mute
nelle lacrime
Il titolo dell’articolo di
giornale era inequivocabile: ≪La
casetta della vecchia stazione ferroviaria prossimamente sarà demolita .≫
Elisa fissò comeipnotizzata la foto che accompagnava
l’articolo.
Certo, era la vecchia sala
d’attesa della piccola stazione ormai in disuso da tanto tempo. La porta dalla
quale si accedeva alla pensilina era rigorosamente chiusa e dai suoi vetri
filtrava una luce bianca che impediva la visuale oltre gli stessi. - Era la
luce del mattino - pensò Elisa, poiché l’accesso ai binari era a est. Cercò con
lo sguardo le vecchie panchine. Erano lì, accarezzate dai raggi di quella luce mattutina
che sembrava consolarle della solitudine che le aveva colpite. E poi, ecco la
mensola della biglietteria, con lo sportello in legno abbassato come il broncio
di un bambino offeso. Elisa volse lo sguardo alle pareti. La bacheca degli
orari mostrava gli angoli cadenti dei fogli ingialliti, come petali di fiori
appassiti. A lato della bacheca si poteva notare la porta che portava
all’ufficio del capo stazione, ineluttabilmente chiusa. In quella stanza il
tempo si era fermato. Lo dimostravano gli arredi fuori moda nonché i modelli
datati delle porte. Il tutto imbevuto dalla percezione di un silenzio
inesorabile.
-Verrà
demolita – ripeté a bassa voce Elisa. E una punta di tristezza salì lentamente
da qualche angolo remoto della sua anima.
Quante volte si era seduta
su quelle panchine, quando, giovinetta, attendeva il treno che la portava al
lavoro in città. Già, perché quella era una stazioncina di paese dove, per i
soliti motivi economici, già da qualche anno era stato deciso che i treni non
avrebbero mai più effettuato la fermata.
I ricordi affioravano
prepotenti nella mente di Elisa. Allora era giovane e la vita era piena di
promesse. - Tutto cambia, tutto finisce. Anche questa - disse tra sé - anche questa non
ci sarà più -.
Elisa passò in rassegna i
suoi giovani compagni di viaggio di un tempo. Come lei, obbedienti al destino
di lavoratori precoci, pieni di speranze e sogni nel cassetto. Si erano autosoprannominati
“La compagnia del treno”. Mezzi addormentati e taciturni al mattino, quando
ritornavano dopo la giornata di lavoro, formavano un bel gruppo ciarliero e
spensierato. Quanti anni erano trascorsi da allora. Chissà se ogni tanto
pensavano ancora a quel periodo della loro giovinezza. Ormai ognuno aveva
seguito il destino che la vita gli aveva preparato.
-“La
compagnia del treno” non c’è più – si disse Elisa.
Osservò ancora
insistentemente la fotografia di quella saletta d’attesa. Le panchine vuote, la
biglietteria chiusa in un suo dignitoso silenzio, la bacheca impolverata.
Quanta gente era passata di
lì, quanti sguardi distratti o frettolosi avevano attraversato quel piccolo
spazio di mondo. Quanti pensieri avevano sostato nell’aria di quell’angusta
stanzetta, in attesa che il treno
arrivasse.
Era successo anche un
gravissimo incidente. Un’anziana passeggera aveva perso la vita investita dal
treno mentre attraversava i binari e non si era mai capito come era potuto
succedere.
-Poverina - pensò Elisa - ormai non si ricorda
più nessuno di lei. Solo questa vecchia stazione sa la verità. E fra poco anche
questa sarà spazzata via. Non è giusto -.
Fissò la porta dai vetri imbiancati da quella
luce accecante.
Elisa si rese conto che lo
smantellamento di quell’edificio significava per lei come radere al suolo una
parte della sua vita. Sapeva benissimo che nulla è eterno di ciò che ci
circonda e tante costruzioni erano state abbattute e sostituite da altre più
moderne e funzionali. Bisognava accettare tutto questo. Eppure…- non è giusto -
ripeteva a se stessa. Ma all’improvviso qualcosa s’illuminò nella sua mente. Prese
le forbici dal cassetto e iniziò a ritagliare dal giornale quella foto che
tanto l’aveva colpita. - Questa rimarrà con me - si disse e la portò nella
scatola dove custodiva articoli di giornale e altre foto che la interessavano.
La guardò intensamente e le
parlò come se quella avesse potuto sentire: - eccoti qui, starai vicino a me e
mi racconterai tutto quello che sai. Tu parlerai piano piano e io scriverò. –
Poi Elisa si mise al pc e
cominciò a ticchettare sui tasti:
La
ragazza arrivò alla stazione trafelata. Il bigliettaio la tranquillizzò dicendo
che quel mattino il treno sarebbe arrivato in ritardo di 10 minuti. Si guardò
intorno con un sospiro di sollievo mentre un ragazzo alto e slanciato la stava
guardando sorridendo: - ciao – le disse - ho avuto la stessa fortuna anch’io
questa mattina –
La
ragazza ricambiò il sorriso e si sedette esausta sulla panchina. – Ogni tanto i
ritardi sono una manna – rispose. Sorrisero entrambi e, appena la ragazza si
riebbe dal fiatone, si alzò e si diressero ambedue fuori dalla sala d’attesa
verso la pensilina dove, in lontananza, il treno annunciava il suo arrivo con quel suo
fischio inconfondibile…
Per chi volesse conoscere ciò che il popolo ucraino ha subìto
durante il regime di Stalin negli anni trenta del Novecento, il libro “I girasoli di Kiev” di Erin Litteken
può essere un valido aiuto.
Un romanzo che, attraverso le vicende di una famiglia ucraina,
ci fa entrare nell’orribile realtà dell’Holodomor. Far morire milioni di
persone di fame lasciando marcire il grano nei depositi, penso che sia uno dei
peggiori crimini contro l’umanità.
E tutto questo in nome di una ignobile e vile ideologia chiamata “collettivizzazione” dei
prodotti della terra. Ma di collettivo c’era solo la morte di gente semplice
alla quale era stata tolta l’unica fonte di sostentamento rappresentata dal
lavoro contadino.
Il regime comandava loro di lavorare e produrre senza la
possibilità di godere dei frutti delle loro fatiche. Chi cercava di opporsi a
questa ignobile prepotenza veniva regolarmente ucciso.
Alcuni di quei pochi sopravvissuti a questo sterminio hanno
trovato rifugio all’estero, principalmente in America, dove hanno potuto rifarsi una vita, cercando
di tenere a bada i tristi ricordi degli orrori subiti nella loro amata terra
Ucraina.
L’autrice di questo bellissimo romanzo-testimonianza è
americana ma ha origini ucraine e ciò che scrive non è pura invenzione
bensì trascrizione di realtà raccontate
da chi le aveva vissute sulla propria pelle.
L’asservimento al regime, le crudeltà perpetrate su un popolo
inerme e indifeso non potranno mai essere dimenticate da chi è riuscito a
sopravvivere. Si capisce così come, con
l’avvento dell’assurda e crudele invasione russa dell’Ucraina del febbraio
2022, questo popolo, fiero e coraggioso, che a fatica era riuscito a rendersi
indipendente e autonomo, ora cerchi di lottare con tutte le sue forze per non
sottostare nuovamente al regime dittatoriale russo.
“I
girasoli di Kiev” l’ho preso a prestito presso la biblioteca, ma mi è sembrato
così vero e interessante che lo voglio acquistare per tenerlo fra i miei
preferiti.
È
chiaro quindi che ne consiglio vivamente la lettura.
Tanti
crimini sono stati compiuti da certi “uomini” che si credevano immortali per
poter dominare il mondo ed è triste assistere anche ai giorni nostri a violenze
inaudite sui propri simili.
Fin
dagli anni della mia giovinezza, “all’apparir del vero”, nella mia piccola
mente mi è sembrato di poter sostenere che la guerra è il più alto grado della
stupidità umana. E credo proprio che non cambierò mai idea.
vorrei
ricordare le donne e le bambine uccise nelle guerre
nonché le
vittime di femminicidio
e poi le
donne private di ogni diritto e libertà
le migranti…
Visto poi
quanto succede nella nostra epoca “evoluta” , dedico questa giornata a
Le madri dei
soldati
uccisi nelle
guerre
hanno
lacrime di perla
e cuori
spezzati
che nessuna
medaglia
potrà
consolare, né guarire
Nessun uomo
di Stato
degno di
questo nome
dovrebbe
avere il diritto
di mandare i
loro figli
ad
aggredire, a uccidere
e a morire
Giovanna Giordani
- poesia premiata con un PREMIO SPECIALE al Concorso Internazionale Letterario di Poesia per l'80^ anniversario dello sbarco degli alleati ad Anzio (RM) -