≪Credevano, gli uomini, che la cosa più sacra e più importante non fosse quella mattinata di primavera, non fosse quella bellezza del mondo, concessa per il bene di tutte le creature, giacché era una bellezza che disponeva alla pace, all’accordo, all’amore: ma fosse, la cosa più sacra e più importante, ciò che essi stessi avevano escogitato per poter dominare gli uni sugli altri.≫(Leone Tolstoj)
L’angelo messaggero
iniziò il suo viaggio intorno alla Terra per raccogliere notizie da riferire al
suo amato Gesù che fra poco avrebbe compiuto gli anni. La festa in cielo
per questo compleanno era magnifica: gli angeli cantavano canzoni dolcissime e le
anime di coloro che nella vita avevano amato Gesù si univano ai cori
gioiosamente. La splendida luce delle stelle illuminava ogni cosa.
L’angelo messaggero
aprì dunque le sue grandi ali e iniziò a volare scrutando attentamente il
mondo. Egli vide che in certe zone brillavano infinite luci artificiali sulle
case e sui palazzi, ma soprattutto nei grandi magazzini. Ne fu quasi abbagliato. Continuando il suo
volo notò che in altre zone, invece, brillavano delle piccole luci che però non
erano artificiali bensì delle gioconde fiammelle.
Lo annotò sul suo
“diario di bordo” e, finito il giro intorno al nostro pianeta, tornò dal suo
Gesù.
-Ho visto in certi luoghi miriadi di luci
splendenti come fossero impazzite – riferì l’angelo - si vede che gli uomini ci
tengono al tuo compleanno! Strade,
negozi, bancarelle, era tutto un luccicare festoso e ne sono stato quasi
abbagliato. In certe zone però non vedevo luci abbaglianti e ho dovuto
abbassarmi per vedere meglio. Mano a mano che scendevo potevo notare delle
piccole fiammelle che tremolavano nel buio. In quel luogo notai, inoltre, con
mia grande gioia, che c’era un’atmosfera di pace e serenità. –
-E poi cos’altro hai visto? – Chiese
Gesù.
-Non vorrei dirtelo - rispose l’angelo -
ma dato che me lo chiedi devo confessarti che ho visto anche delle enormi chiazze
di luce che uccidevano gli uomini. Laggiù
le chiamano armi, o bombe, credo, e la loro vista mi ha procurato tanta
tristezza .
-Anche a me questa tua notizia procura
immensa tristezza e dolore- rispose
Gesù. – Ti dirò anche - proseguì – che le fiammelle di cui mi hai parlato sono
quelle che brillano nei cuori che vorrebbero vivere in pace assieme a tutti i
loro simili e sanno il vero significato della parola ‘Amore’ . Sono loro che un
giorno saranno qui fra noi a festeggiare in letizia il mio compleanno –
-Capisco – rispose l’angelo – spero proprio
di vederne tante di quelle fiammelle nel mio prossimo viaggio! –
Poi
si sedette accanto a Gesùe gli consegnò
il suo “diario di bordo” mentre tutto
intorno era un andirivieni di angeli e anime indaffarati per i preparativi
della festa. L’angelo messaggero li osservava sorridendo, poi, rivolgendosi al
suo grande amico e Signore gli disse: ti vogliamo bene, buon compleanno, Gesù!
Echi di guerre dimenticate rabbiosi squarciano i cieli d'Oriente smarritisi nello strazio arcano dei boati tra macerie sanguinanti e nere colonne d'un fumo acre d'odio e di morte. Lungo i sentieri di profughe marce il cuore affondato nel fango di stagioni inaridite e stanche ecco trascinarsi fin alla città di Davide una volta ancora tristemente il Verbo che si fece carne. L'attendono non più una ma mille impietose mangiatoie e migliaia di dinieghi indifferenti a milioni novelle stragi d'innocenti. Che cosa conta l'affamato pianto negli occhi bombardati dei bambini dinnanzi alla pingue protervia dei potenti? Quante vergini partorire ancor dovranno il loro intimo quotidiano dolore nello stupro asfittico del mondo? Nessuna compassione né redenzione fiorisce in questo deserto di filo spinato terreno inferno d'amaro pianto dove alcun dio vorrebbe esser nato poiché nascita è preludio già di croce. Ma pur nella notte dell'esistenza più atroce mentre marcian da Oriente echi di guerra cerchiamo fili di luce, illusioni di speranza e della pace l'errabonda stella.
- LAURA VARGIU -
(dall'antologia "Le Pagine del Natale" - Autori vari - editore LargoLibro- 2019)
Ho letto con piacere il breve
romanzo di Graziella Cappellie dirò che
il primo vocabolo che mi è venuto in mente a lettura terminata è stato:
verismo.
Non credo che Graziella nel
comporre il suo primo lavoro di narrativa abbia pensato ad una corrente
letteraria, ma, si sa, ogni lettore ha un diverso impatto con la lettura.
E’ un’autobiografia scritta in
terza persona, un cammino a ritroso nel tempo fino al periodo dell’infanzia e
della prima adolescenza, dove i ricordi si materializzano fin nei minimi
particolari descrivendo con disarmante veridicità il mondo in cui l’autrice ha
iniziato il suo percorso di vita.
Per iniziare questo viaggioGraziella adotta un espediente originale che la porta in un luogo dove le appare una
bimba che le dice:
“da dove vieni? Sei forse una fata?”
“vengo da un’altra vita e sono giunta fin qui attraverso quello
specchio”
“ ma come” -risponde la bimba – quello
è lo specchio del nonno, il poeta, ma ora è morto”…
Si viene a sapere dunque che il
nonno era un poetae così capiamo da
chi, la nostra autrice, ha ereditato l’arte di comporre bellissimi versi.
L’infanzia di Rossella si è
svolta in uno dei tantissimi ambienti poveri del dopoguerra con gli aspetti che
si possono immaginare. Ha lasciato in lei ricordi di sofferenza ma anche di
tanto amore.
Le immagini che ci propone sono
nitide e, per chi ha conosciuto quel periodo della nostra storia, ravvivano
ricordi e atmosfere che gran parte della gente ha vissuto in tanti luoghi della nostra
Italia.
“Improvvisamente si udì bussare alla porta…- Babbo che cosa ci hanno
portato?- disse la bambina curiosa… - Il comune ci ha mandato questa roba per
Natale, la danno a tutte le famiglie povere! –“
L’animo poetico della scrittrice
traspare inoltre in certe descrizioni di paesaggi e stati d’animo dei
personaggi descritti“gli occhi della donna si illuminarono come
lucerne alla vista di quel ben di Dio”…
Una lettura, dunque, scorrevole e
interessante,che, attraverso i fatti di
vita vissuti, ci fa capire come il periodo dell’infanzia sia fondamentale per
la crescita e la formazione del carattere di ogni persona.
Anche Graziella l’ha sperimentato
e ha voluto confermarlo tornando indietro nel tempo. Questo camminare in punta
di piedi,ma con determinazione sincera,
nei ricordi, sembra averla appagata e rasserenata. Noi ne condividiamo volentieri la conoscenza.
C’era una volta un albero un po’
particolare, e vi dirò subito perché: sapeva cantare! All’arrivo della
primavera, dunque, al primo tepore del sole, le sue tenere foglioline
cominciavano ad aprirsi e intonavano un coro che si espandeva per tutto il
giardino.
Dapprima iniziavano fievolmente,
poi, mano a mano che crescevano e diventavano delle robuste foglie verdi, anche
le loro voci si facevano sempre più sonore e armoniose rallegrando così le
giornate di quel luogo ameno.
Vicino a quest’albero canterino
c’era una di quelle piante grasse con quei tremendi aculei che sembravano
sempre pronti a colpire chi si avvicinava troppo. Ebbene questa pianta era
l’unica nel giardino che non apprezzava per niente le canzoni di questo albero
e pertanto continuava a brontolare come una pentola di fagioli.– Verrà anche l’autunno – borbottava tra sé –
così questa musica smetterà -. E intanto diventava sempre più gonfia di stizza
e i suoi spini sembravano pronti a schizzar via per pungere qualche
malcapitato.
Verso settembre arrivò nel
giardino il primo venticello portando un po’ di tremore dappertutto.
La voce delle foglie dell’albero
canterino cominciò a indebolirsi. E il sole, impietosito, cercò di donare loro tutto il
calore di cui era capace in quel periodo dell’anno, facendole diventare
splendenti come l’oro. E così poterono continuare a gorgheggiare contente.
In ottobre passò da quelle parti
un signore molto distinto assieme ad un suo amico che indossava dei vestiti un
po’ larghi, aveva i capelli lunghi e amava dipingere quadri.
Giunti davanti all’albero che
sapeva cantare, si fermarono estasiati dallo splendore delle foglie che il sole
non smetteva di accarezzare.
- Che meraviglia! – disse il
signore elegante. – Davvero splendido! – replicò il pittore.
A quei complimenti le foglie
arrossirono di piacere e alcune svennero
per l’emozione, cadendoa terra.
- Domani potresti venir qui con il
tuo cavalletto e con i tuoi pennelli – disse il signore elegante al pittore.
- Verrò volentieri – rispose questi.
- Ecco care - disse la pianta
grassa – domani ci faranno il ritratto. Potreste almeno per un giorno smettere
di cantare? -
- Smettere di cantare? Perché? –
risposero le foglie - noi domani faremo
del nostro meglio per regalare a quei signori gentili le nostre più belle
melodie -. La pianta grassa bofonchiò rassegnata; tanto con quelle era proprio
inutile discutere.
L'indomani arrivò il pittore con il suo
cavalletto sul quale sistemò una tela bianca di media grandezza; si sedette su
una panchina di fronte all’albero che cantava e, presipennelli e tavolozza, iniziò a dipingere. Era una giornata meravigliosa.Dallo sfondo del cielo turchese e alla luce del sole tutti gli alberi splendevano dei colori più belli e l’albero canterino spiccava fra tutti per la sua luminosità. Lo
spettacolo era davvero mozzafiato; le foglie arrossivano sempre di più nel
sentirsi così al centro dell’attenzione, e cantavano sommessamente.
Disse la pianta grassa: - meno male
che oggi almeno cantate più piano e non mi rompete i timpani con i vostri
strilli (!) –
Alla fine della giornata il
pittore regalò il quadro al suo amico che ne fu molto contento, mentre la notte abbassò le palpebre a tutti
gli abitanti del giardino, che si addormentarono pacifici.
L’autunno e l’inverno avanzavano
a grandi passi e il vento che li accompagnava faceva cadere le foglie di quasi
tutti gli alberi. Solo la pianta grassa rimaneva imperterrita, assieme alle
piante sempreverdi che sonnecchiavano silenziose.
Anche le foglie canterine caddero
una ad una e, mentre si adagiavano sul
terreno intorno al tronco dell’albero, continuavano a cantare piano piano, finché si addormentarono tranquille;sapevano infatti che l’albero conosceva a
memoria le loro canzoni e le teneva ben custodite per la primavera successiva.
La pianta grassa, che ormai non
poteva più sentirle, disse: - meno male
che almeno adessoposso dormire in pace –
e, distolto lo sguardo dai rami spogli dell’albero, cominciò a russare come un
trombone stonato.
In una bella casa, non molto
lontano dal giardino, quel signore elegante di cui abbiamo parlato poco fa, una
sera invitò a cena amiche ed amici con le rispettive famiglie.E in quell’occasione mostrò loro il dipinto fatto
dal suo amico all’albero dai colori splendenti.
Tutti guardarono il ritratto con
ammirazione. Fra i presenti c’era anche una ragazzina che amava molto dipingere
e alla vista del quadro proruppe in una esclamazione di meraviglia : - Ma è bellissimo!
Quell’albero ha i colori dell’oro e sembra quasi che sprigioni una musica! -. Non si era resa conto, come noi sappiamo, di
aver detto proprio la verità. E fu così che il nostro albero poté continuare a
cantare felice nel quadro, in ogni
stagione,ma solo le persone speciali
riuscivano a sentirlo.
Propongo volentieri questa poesia in dialetto trentino:
Lassème star da sol su sta bancheta e né lizeri per le vosse strade. No gaverò paura del silenzi perché i ricordi i parla i brusa i tase. Lassème ciacolar col vènt e i fiori e rider come en pòpo che strangossa de 'mpresonar colori 'nte le man. No son finì. Gò ancora en s'ciap de sogni da zugar e vinzerò, sul temp e sui dolori.
. Antonia Dalpiaz -
(scrittrice e poetessa trentina)
-.-.-.-
traduzione:
Lasciatemi stare da solo su questa panchina e andate leggeri per le vostre strade. Non avrò paura del silenzio perché i ricordi parlano bruciano tacciono. Lasciatemi chiacchierare col vento e i fiori e ridere come un bambino che brama imprigionare colori nelle mani. Non sono finito. Ho ancora un gruzzolo di sogni da giocare e vincerò, sul tempo e sui dolori.
Segnalo volentieri tre concorsi che mi sono stati portati a conoscenza: http://largolibro.blogspot.com/2019/11/le-pagine-del-natale-ecco-la-nuova.html .-.-.-.-.-.-.- biblioteca@comune.gatteo.fc.it -Secondo Concorso letterario di poesia "Premio Narda Fattori" .-.-.-.-.- https://www.facebook.com/events/370770063597992/ .-.-.--.-
Questa è una filastrocca scritta qualche anno fa, a quattro mani, con la mia amica Anna G. Mormina. Con soddisfazione di entrambe, ci siamo accorte che ha avuto in rete un certo successo:
Non potendo commentare sul blog di Piera Maria Chessa riporto qui da me queste sue bellissime riflessioni che condivido pienamente. Dopo quanto accaduto nei confronti di Liliana Segre in questi giorni, non so come alcuni nostri cittadini possano dirsi orgogliosi di essere italiani. Mi unisco alle persone che si adoperano per dimostrare, a questa encomiabile Signora , solidarietà, ammirazione e gratitudine per quanto fa e ha fatto al fine di evitare il ripetersi dei noti indicibili orrori accaduti nel secolo scorso anche nella nostra Italia...
Sono giorni indimenticabili questi che stiamo vivendo, giorni che non avremmo voluto vivere, almeno una parte di noi, perché lasciano addosso un’amarezza che avvolge come se fosse una colla resistente, e della quale è difficile liberarsi. Non è una novità per nessuno quella che è stata la vita di Liliana Segre, un’esistenza durissima fin da quando era bambina, sopravvissuta poi all’inferno di Auschwitz. Non voglio certamente tracciare una sua biografia, solo soffermarmi su alcuni particolari della sua vita. Per esempio, si parla sì, ma poi non così tanto, di quel ricordo indistruttibile, non solo a livello mentale ma anche fisico, che è un numero, costituito da più cifre, che Liliana Segre porta con sè, su un braccio, da quando non aveva ancora quattordici anni, questo numero è 75190. Se solo provassimo a immaginare di vivere noi stessi quella sua esperienza, rinchiusa a tredici anni, un anno e mezzo di campo di concentramento, l’aver visto il padre morire dopo pochi mesi… Una ragazzina di quattordici anni e mezzo che ritrova la sua libertà, che prova a condurre una vita “normale”, cresce, forma una famiglia, tutto ciò che di solito fa parte della vita di ognuno di noi. I ricordi però non si possono cancellare, e neppure gli incubi, e quel numero portato fino ad oggi per decine di anni penso che abbia impedito a Liliana Segre di sentirsi, come tutti noi, una persona “normale”, perché la sua vita non può che essere considerata straordinaria, non normale. Per anni lei non ha parlato della sua esperienza, neppure i suoi per diverso tempo ne sono venuti a conoscenza nella sua interezza, poi ha deciso che era giusto parlarne, raccontare la sofferenza patita nel campo, la crudeltà di cui i suoi occhi sono stati testimoni; erano, non dimentichiamolo, occhi da bambina, eppure è riuscita ad andare oltre. E noi, una parte di noi, che facciamo? Da dove nasce oggi quest’odio verso una donna avanti negli anni, pacata nei comportamenti e nel linguaggio, che cosa può disturbare in lei? Lei che non conosce l’odio, eppure ne avrebbe motivo, che si meraviglia nel vedere che non tutti, al momento del voto, abbiano votato concordi contro ogni forma di razzismo e discriminazione, che non si spiega il perché dei tanti insulti che quotidianamente le arrivano. Ora avrà una scorta, perdendo un pezzo considerevole della sua libertà. Perché sì, si sentirà più sicura, ma la libertà, la vera libertà, non ha prezzo. Io trovo che sia profondamente ingiusto ciò che sta succedendo in questi giorni, ingiusto e vergognoso. Diverse persone vorrebbero chiedere scusa a quest’anziana signora che ha veramente dato tanto, andando nelle scuole, incontrandosi con i giovani, costringendo se stessa a ricordare ogni volta quello che ognuno di noi vorrebbe solo dimenticare. Lei lo fa perché sente che è giusto farlo, la morale, quella autentica che dovrebbe guidarci nella nostra vita tutti i giorni, quella legge morale lei l’ascolta. Eppure in molti non le riconoscono neppure questo, ritenendo che ci sia ben altro dietro le sue scelte. Oggi, in questo nostro Paese allo sbando, sembra veramente difficile capire che certe strade si possa decidere di percorrerle senza nessun secondo fine.
Mettendo in ordine diversi testi scritti qualche tempo fa, ne ho trovato alcuni che non ricordavo proprio, tra questi uno dedicato ad AldaMerini, scritto subito dopo la sua morte. Desidero riproporlo oggi, così, semplicemente, per ricordarla, per ricordare con affetto una grande poetessa, ma anche una donna che da una sofferenza profonda ha saputo e voluto trarre ispirazione per i suoi versi così veri, autentici come lei, che nella sua vita lo è sempre stata.
Alda
Ti immagino qui, accanto a me, la sigaretta tra le labbra, lo sguardo diretto di chi non ha timore perché conosce bene i morsi del dolore.
Mi guardi, non sai che ti conosco, che ho letto molte volte i tuoi pensieri e a lungo ho riflettuto sulla vita di chi del pozzo ha conosciuto il fondo.
Ti vedo camminare lentamente tra i tanti fogli bianchi che hai riempito, tra mozziconi brevi a terra andati, gettati lì dalla tua noncuranza.
Tu non ami parlare del passato, di tutto ciò che a lungo ti ha ferito.
In fondo a cosa serve raccontarlo a chi non conosce affatto quel dolore profondo e insopportabile del cuore e della mente, e cerca di capire?
Io ti saluto, Alda, e ti rimpiango, difficile scordare il tuo sorriso a volte dolce a volte un po’ beffardo, le tue movenze morbide e un po’ lente, il tuo indagare lucidamente il mondo.
Che cosa sono i fiori? non senti in loro come una vittoria? la forza di chi torna da un altro mondo e canta la visione. L'aver visto qualcosa che trasforma per vicinanza, per adesione a una legge che si impara cantando, si impara profumando. Che cosa sono i fiori se non qualcosa d'amore che da sotto la terra viene fino alla mia mano a fare la festa generosa. Che cosa sono se non leggere ombre a dire che la bellezza non si incatena ma viene gratis e poi scema, sfuma e poi ritorna quando le pare. Chi li ha pensati i fiori, prima, prima dei fiori.
Alla memoria di Giulio Regeni (1988-2016) che attende ancora giustizia
Abbandonato, com’estremo inganno
nell’umiliata nudità delle tue spoglie
lungo l’indifferenza della strada in corsa
ai margini d’un deserto divorato
da frastuoni di solitudine antica
là dove s’infrange la vita
sugli sguardi acuminati del sospetto
Avvolto con disprezzo
in quel sudario rappreso e maledetto
che stilla ancor silenzio e sangue…
quale strazio ha mai patito la tua carne
precipitata negli inferi del mondo?
in quale inatteso feroce disincanto
è scivolato il sorriso del tuo sguardo?
Pari a prolifici fantasmi
troppi perché galleggiano inevasi
nella veglia senza requie del tempo
in ascolto inquieto e inerme
dei muti sussurri del tramonto
tra le arcane voci dei muezzin d’Oriente
ch’esplodono all’unisono la sera
Ma svuotati ormai d’ogni preghiera
andiamo in cerca del tuo nome
e di quei giovani tuoi passi spezzati
in quest’abietta landa di disumanità
su cui invochiamo cieli tersi di giustizia
mentre le loro più torbide menzogne
impietosa han già raccontato la verità
- - Laura
Vargiu-
(poesia vincitrice al concorso “Poesia e Solidarietà”in Trieste, 2019, con la seguente motivazione:
Per
la forza drammatica con cui la poesia oppone l’onestà fiduciosa di Giulio
Regeni - “eccomi pareva dire, “sono qui,
sono sincero” – alla menzogna dei suoi assassini, in una vicenda che attende
giustizia. Una giovane vita stroncata con disumana ferocia grida ancora la sua
ansia di verità)
Grazie Laura per questo bellissimo testo
ricco di solidarietà, pietà, dolore e denuncia. Sarebbe davvero bello se
Giulio, da lassù lo potesse leggere…
A quelli che avevano alte aspirazioni, e hanno fallito ai militi ignoti caduti in prima fila combattendo ai macchinisti tranquilli e fedeli - ai viaggiatori troppo ardenti - ai piloti nelle loro navi ai numerosi sublimi canti o dipinti mai riconosciuti - vorrei erigere un monumento tutto coperto d'alloro alto, più alto di ogni altro - a quanti furono falciati prima del tempo posseduti da uno strano spirito di fuoco spenti da una morte precoce