≪Credevano, gli uomini, che la cosa più sacra e più importante non fosse quella mattinata di primavera, non fosse quella bellezza del mondo, concessa per il bene di tutte le creature, giacché era una bellezza che disponeva alla pace, all’accordo, all’amore: ma fosse, la cosa più sacra e più importante, ciò che essi stessi avevano escogitato per poter dominare gli uni sugli altri.≫(Leone Tolstoj)
Sono convinta che le forzature in natura non vanno mai bene. Così è stato per l'introduzione forzata dalla Slovenia degli orsi nei boschi trentini. Gli orsi, seguendo il loro istinto, hanno provocato gravi danni ad animali da allevamento e persone. Ora si vuole "educare" la popolazione che ama passeggiare nei boschi a mantenere certi comportamenti in caso di incontro con il plantigrado e viene anche omaggiata di un campanellino "antiorso"...
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Stavo
passeggiando in uno dei boschi del mio amato Trentino.
Come al solito ero
affascinata dall’ascolto dei teneri ciangottii che provenivano dai rami degli
alberi e dal lieve stormire delle fronde che sembravano rivolgermi il loro
saluto di benvenuto. Tutto era pace, serenità. All’improvviso questa pace fu interrotta
da un rumore di rami spezzati, scricchiolio di sterpaglie e tonfi pesanti alle
mie spalle. Mi girai e rimasi impietrita da ciò che stava davanti ai miei
occhi. Un enorme orso, ritto sulle zampe posteriori e le fauci spalancate
iniziò a rugliare verso di me in modo che mi sentii raggelare il sangue. I suoi
denti bianchissimi e appuntiti spiccavano orgogliosi e mi sembrò che anche il
bosco dintorno ammutolisse di terrore. Rimasi immobile. Il cervello era solo
capace di dirmi che avrei fatto la fine delle galline, pecore, mucche e asini di
cui tale animale, come avevo letto e visto sui giornali, era ghiotto. Attesi. Non
potevo fare altro. Le mie gambe erano diventate due macigni inamovibili.
L’orso
richiuse le fauci e mi fissò intensamente. - Forse non gli piaccio. - Sperai.
Lui continuava
a fissarmi con i suoi occhioni luccicanti di
lampi di rimprovero, che non promettevano niente di buono, e sembrava mi
dicessero:
- cosa fai tu, qui, straniera? Come osi
entrare nella mia casa senza aver suonato il campanello? –
Poi rugliò di
nuovo tendendo verso di me le sue zampe anteriori.-E’
finita – pensai e cominciai a gridare disperatamente: - Il campanellooooooo, dov’è
il campanellooooo???!!!!!! –
Ma mi
rendevo conto che le mie grida erano afone per cui nessuno poteva sentirmi. Riprovai
ancora, mentre l’orso ormai mi era addosso con la sua scura mole ondeggiante e le
fauci spalancate. Poi il buio mi avvolse e mi svegliai madida di sudore, ma
felice di essere comodamente seduta sul divano di casa. Mi resi conto di essermi assopita davanti alla
tv, con il giornale sulle ginocchia dal quale spiccava il viso sanguinante dell’uomo ferito da un orso.
– Che ti
succede? – mi si stava chiedendo con voce preoccupata. - Cos’è questa storia
del campanello? –
-Oh
niente - risposi - mi raccomando, se andate a passeggiare nei boschi, non
dimenticate di portare con voi un campanello. Lo esige il re dei boschi. Se
entrerete nella sua reggia senza aver suonato il campanello, lui si arrabbierà parecchio,
e… speriamo che ve la cavate! -
Tutto è chiaro nella poesia di Renzo Montagnoli,
nessuna presenza di astruse metafore da decifrare, solo un dialogare sommesso,
quasi un sussurro, come l’ascolto di una tenera confidenza.
Ritrovo il piacevole stile dello scrittore anche in
questa sua seconda silloge.
L’autore osserva, pensa, riflette sulla realtà che lo
circonda. La natura esercita su di lui un fascino ammaliatore che lo pervade
portandolo a sentirsi con essa in magica sintonia. Da qui l’esigenza
di usare la parola per fissare emozioni, sensazioni, riflessioni che possano
valorizzare ed eternizzare ciò che egli percepisce come esperienza del
mistero infinito di cui si abbevera la sua anima. La sua anima, appunto, poiché
egli ne parla come di una dolce amica fedele “Anima mia”, l’altra
parte di sè che glisopravviverà in quanto spirito facente
parte di quel cerchio che si espande all’infinito e dove anche il pensiero
spesso “dolcemente naufraga”. E così l’anima diventa nocchiero della
vita… “l’anima è il nocchiero che mi guida”. (La guida)
Incontreremo ancora la sua anima in “Cento gradini”
dove il poeta ne sente vibrare la presenza nel momento in cui apre le porte al
silenzio che gli permetterà di ascoltare la voce del suo cuore. E poi in
tante altre poesie come in L’ultimo approdo”…. E nella luce
del tramonto/mentre s’appresta la sera/l’anima scivola silenziosa/lenta
s’invola…”
In questa silloge Renzo ci prende per mano e ci
fa conoscere luoghi e atmosfere che sono per lui fonte d’ispirazione
poetica e dai quali ci sentiamo delicatamente avvolgere come in una nuvola. E
così prima di tutto “vediamo” le sue poesie e poi ne assaporiamo il
carattere profondo, sensibile e coinvolgente.
Ed ecco l’Onda ….”all’ultima
meta/infine ha portato/la sua vita di sale”.Oppure Le cattedrali
del cielo con il loro irridere ..”all’umana sapienza…”.
Ogni visione ha la sua voce, il suo messaggio che si può cogliere solamente
nella sacralità del silenzio.
Ma il filo conduttore di questa raccolta poetica è il
tempo; tempo che sembra essere lunghissimo per le rocce che si sbriciolano
in millenni e breve per l’esistenza umana o brevissimo per altri esseri
viventi. Il tempo che disegna un cerchio infinito dove ciò che
si disfa si ricrea con un ritmo cadenzato ed incessante.
Così in La primavera ”…Un’altra
primavera/un’altra stagione/rubata all’eternità.”
Il tempo, che accoglie la vita, ne condivide le
gioie e i tormenti e su tutto lascia la sua eterea carezza. …”un breve
battito d’ali/ un volo improvviso/ un balzo di vita/ e subito pensi /che il
tempo corre…(Il desiderio di vivere)
Leggo queste poesie come dei mini racconti
in versi intrisi di malinconia, oserei dire leopardiana, per quel suo
accostarsi alla natura con riverenza ed incanto ravvisando la sua precarietà in
simbiosi con l’esistenza dell’uomo nel suo continuo nascere e morire,
aggrappato ad un’eterna illusione. Eppure, come succede nel leggere
Leopardi, la constatazione della caducità dell’esistente, non produce in noi
pessimismo, bensì accettazione che non è “la docilità dello sconfitto”, come
giustamente dice Manini nella prefazione, bensì l’accettazione e la
curiosità di esplorare questo mistero con i mezzi che abbiamo a disposizione.
Uno di questi è sicuramente la parola con la quale possiamo cercare di
comprendere, almeno parzialmente, quanto sta fuori e dentro di noi.
Ed è ciò che fa il nostro poeta
invitandoci, ermeneuticamente, a riscoprire e assaporare le piccole gocce
di serenità o felicità che qualche volta la vita sa offrire, regalandoci
momenti imprevedibili e luoghi soffusi di magia, di sogni e di pace nei quali
la poesia trova terreno fertile per germogliare.
Giovanna Giordani
Anno 2008 - Edizioni Il Foglio Prezzo € 10 - 70 pp. ISBN 9788876061967
L’ho comprato e l’ho messo da parte. Per
leggerlo, avevo bisogno del momento giusto. Ed è arrivato.
Ho fatto spazio dentro di me e la musica dei Canti celtici ha iniziato
lentamente ad espandersi fin dai primi versi “S’alzano le brume del mattino/frustate
dagli strali del primo sole/e al lontano suono di cornamuse/s’accompagna la
lenta melodia di una cetra”…
Ormai sono “dentro” dentro quel mondo lontano eppur presente perché l’autore
l’ha saputo evocare nei luoghi che ne raccontano la memoria.
E così, al primo specchiarsi della luna sul fiume, i “GUERRIERI SULL’ACQUA”
lentamente si animano e scivolano nel buio della notte per poi svanire alle
prime luci dell’alba.
E ..”la voce grave e possente del fiume/E’ un canto maestoso che
parla/d’un passato di genti devote…” M’incanto nell’ascolto. “IL LUNGO
FIUME” però non è più lo stesso, è stato irrimediabilmente oltraggiato dai
nuovi “umani”…che tristezza!
“IL CANTO DEL BOSCO” è un canto sublime che solo un poeta sa ascoltare e
comprendere.
La vita di allora, come quella di adesso, con le speranze, le gioie, i dolori e
il desiderio di pace e di serenità.
Come non commuoversi leggendo.. “…Un piccolo scavo/un ritorno alla
terra/mani di madre che lasciano cadere/un gioco d’osso/un ninnolo intagliato/la
compagnia per l’eternità.” “IN MEMORIA DI UN BIMBO” .
Ed ecco “LA FAMIGLIA” nella …”voce del nonno/ che racconta storie e
leggende/di un tempo che fu…” Adamantino “IL MORMORIO DEL VENTO” che custodisce le voci antiche per chi
le sa percepire ed ascoltare.
Malinconicamente accattivante “AL DIO MORENTE”…”Uno solo a cui parlare/ma
non vedere/lui che ha occhi per tutti/ma che non conosciamo/Non come te, Dio
del fiume/che hai cullato i giorni di tutta la mia vita/e che fra poco
morirai…/ E se fosse lo stesso Dio, quello unico e quello del fiume?.….
Leggendo “I CANTI CELTICI” è come trovarsi dinanzi a dei dipinti. Anzi, questi
dipinti, noi li vediamo materializzarsi con il susseguirsi delle parole
che scorrono come pennelli sulla tela nel fissare atmosfere ed eventi che
ci entrano nell’anima con tutto il loro fascino irresistibile.
Queste poesie sono un prezioso inno alla memoria, affinché l’uomo non disperda
il passato, ma lo sappia custodire come un tesoro inestimabile a cui
attingere per preparare il proprio futuro nella pace, nell’armonia con la
natura e con i propri simili, senza più guerre e distruzioni, lasciando
impronte di vera Umanità.
Grazie Renzo, anche da parte… loro, di cuore.
- E a forza di sterminare animali, s'era
capito che anche sopprimere l'uomo
non richiedeva un grande sforzo. - - Erasmo Da Rotterdam
"...Non si deve uccidere nessun animale senza aver prima chiesto perdono allo spirito della sua specie..." (da Sull'immortalità degli animali di Eugen Drewermann)
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C’è un’immagine, fra le
innumerevoli che percorrono la mia mente, che mi sorprende talvolta, inaspettatamente,
nei momenti più imprevedibili.
E’ la visione che ebbi un
pomeriggio di prima estate durante una passeggiata su un altipiano dove
m’imbattei in una malga dal tipico aspetto rustico, ma ordinata e pulita.
Non ero avvezza, fin da piccola,
a vedere da vicino gli animali da allevamento e quando mi capitava l’occasione
di trovarmeli davanti è sempre stato per me un momento epifanico.
Le mucche, ad esempio, con i loro
tondi corpi paciosi, macchiati di quei
colori caldi e contrastanti, con quei musi dagli occhi buoni e innocenti mi
ispiravano sempre un misto di gioia e tristezza assieme.
La prima volta che vidi un gregge
ero già in là con gli anni e non so descrivere l’emozione, la meraviglia alla
vista di quelle bestiole che si muovevano fianco a fianco in un cammino di
reciproca innata solidarietà; e come dimenticare lo struggente belato delle
madri che richiamavano a sé gli agnellini? Un presepio vivente che mi riportava
all’infanzia lontana.
Quel pomeriggio, dunque, capitai a quella malga accanto alla quale stava una
bassa costruzione.
Mi accostai incuriosita allo
steccato che la circondava e fui accolta da un piccolo maialino che mi venne a
salutare sfregando sul recinto il suo musetto rosa dagli occhietti gonfi, a
mandorla, nella speranza, io supposi, di ricevere qualcosa da mangiare; ma, sfortunatamente, non avevo niente con me e
mi limitai a guardarlo con un misto di compassione e stupore.
Nell’angolo del cortile notai
inoltre tre o quattro maiali accovacciati l’uno accanto all’altro quasi
abbracciati, che sembravano dormire, come vinti da una grande spossatezza e
indifferenti al mondo.
Non potei non pensare alla loro
sorte. E fui pervasa da una subitanea malinconia.
Voi dite che sono patetica? Può
essere, ma dirò di più: improvvisamente
dall’oscurità di un’apertura della casetta sbucò fuori un maialone roseo e
rubicondo che si mise a saltellare come in preda ad una gioia frenetica.
Cominciò ad urtare col muso i maiali addormentati come volesse svegliarli per farli
partecipi della sua dirompente allegrezza. Ma i suoi tentativi di comunicare la
sua letizia cadevano nel rifiuto totale da parte di questi ultimi, ché proprio
non volevano saperne delle sue avances. Lo guardavo ballonzolare imperterrito, mentre
i dormienti sembravano ammonirlo con la loro immobilità. Il messaggio mi sembrò
chiaro: “non capisci, ingenuo, che per noi c’è poco da stare allegri?“
Ma lui, testardo, continuava a
“ballare” emettendo gioiosi grugniti.
Mi discostai per entrare nella
malga al cui soffitto stavano appesi dei salumi di varia grossezza e, alla loro
vista, sentii dentro di me un lamento che saliva strisciando da non so dove.
Bevvi un caffè e me ne tornai a
casa con una pezza di formaggio.
Forse vi farò sorridere ancora,
ma mi capita ogni tanto, magari quando sono al supermercato o sto preparando il
pranzo, di rivedere quel giocondo maiale saltellare goffamente con quel suo
corpo buffo, roseo e pesante, voglioso di partecipare ai suoi compagni la sua
gioia di vivere, ignaro del perché, la sua gioia, veniva così snobbata e incompresa
dai suoi simili.